SPIRITUALITÀ

“Il senso della vita” di Rosa Russo Persichetti

“…mentre nelle città in cui ci sono i migliori artisti, tutti vanno per ammirarli e apprendere, a Sparta, città maestra nell’arte della guerra, non ci va nessuno per ammirare e apprendere, ma anzi tutti girano alla larga”. Queste le parole sagge dal “Lachete” di Platone.

Apprendere, ecco per l’uomo il suo compito indifferibile per cercare il significato del proprio essere: grande lascito della filosofia greca. E non c’è di meglio che apprendere la Virtù. Che scoprirne il significato attraverso quei valori: giustizia, bontà, bellezza, libertà, verità, che abbiano l’obiettivo di creare il bene e la felicità per tutti. Senza infatti sapere in cosa consista la Virtù, non è possibile orientare le azioni in vista di tale obiettivo se è quello, secondo Socrate, che traccia la strada per il Divino; che consente il ritorno alla beata condizione in cui gli esseri umani si trovavano prima di decadere in un mondo imperfetto quale è il nostro, come ne dicono molti indirizzi religiosi.

Di certo, fin dai tempi più antichi che la storia ricordi, c’è stata lotta d’un Caino contro Abele, e non che quelli moderni non presentino le stesse dinamiche che vedono uomo contro uomo. Per accaparramento di beni, per amore del potere, per tutte le invidie che si riesce a concepire, per il proprio protagonismo, per eccellere sugli altri, per, per e non si finirebbe mai d’elencare i mefitici frutti della superbia. Tutto per essersi allontanati da un’etica di condivisione tra gli uomini.

A questo punto occorre chiedersi in quali termini occorre imparare. Lo spiega in sostanza il Lachete: innanzitutto non credendo che sia un male pensare alle nostre cattive azioni, presenti e passate, anzi non rifuggendo mai per il futuro da questo atteggiamento, ma perseguendolo secondo il detto di Solone lungo l’arco di tutta la vita fino a giungere con il ragionamento a rendere conto di se stessi, del modo in cui ora si vive la propria esistenza e in qual modo la si sia vissuta in passato. Con tutta evidenza si deve essere prudenti, ammonisce il Lachete, non pensando di poter fare un bilancio di se stessi verso la fine della vita, nella convinzione “che la vecchiaia giunga assieme all’intelletto” per poter appunto dare conto del proprio essere interiore che invece è frutto di processi morali e intellettuali sempre in via d’evoluzione.

Alcuni versi misteriosi del poema Maori intitolato “La mia legge” rendono l’idea: “…nessuno può salvarti dai tuoi… errori fino a che non presti ascolto al tuo spirito interiore…”.

È l’atteggiamento di chi, a un certo punto della sua esistenza, in vista d’un qualcosa che gli alita dal subconscio, decide di guardarsi dentro per analizzare le proprie scelte operate nel tempo, ovviamente indagando le intenzioni quale loro movente. E senza ingannarsi su di esse per imparare davvero a conoscersi.  Vero è che l’uomo sin dai primordi ha mostrato di non essere mai pago di sé, alla ricerca della propria identità, della propria origine, del proprio destino post mortem, considerati gli oggetti rinvenuti nelle sepolture come corredo per l’Aldilà. La mente umana non è un vaso da riempire, disse infatti Plutarco, ma un fuoco da accendere. Un fuoco che debba accompagnare incessantemente la voce della coscienza.

La Coscienza, ovvero l’Anima!

Fu Socrate a scoprire il concetto moderno di anima come l’ “io”, ovvero interiorità spirituale quale centro d’una libera e intensa vita razionale e morale. “Quando l’uomo muore”, dice, “ciò che c’è di mortale in lui, com’è da credere, muore; ma l’immortale se ne diparte e va via salvo e incorrotto sottraendosi alla morte” (Fedone). L’identità dell’essere umano cioè non consiste nei suoi cinque sensi, nel suo corpo, ma nell’anima o coscienza: la sede dell’intelligenza e del carattere morale. Ragion per cui, secondo il grande filosofo, l’uomo deve far uso dell’intelletto, dono del Dio, a Sua somiglianza, per conoscere se stesso, cercandosi nelle proprie credenze e disponendosi a rigettare quelle errate. Ciò va fatto attraverso il libero confronto del dialogo per scrutare quanto di vero ci sia nelle opinioni e nelle convinzioni che sono a fondamento di Valori secondo cui una cosa è giusta, buona, bella. Questo perché i Valori devono scaturire solo da princìpi universali, che non hanno cioè bisogno di dimostrazione, perché evidenti di per sé, la cui evidenza cioè nessuno possa negare, come a esempio che non bisogna fare quel che si rimprovera agli altri, secondo il filosofo Talete, o che non si deve rendere ingiustizia per ingiustizia, “né far male agli altri per male che si soffra da loro” secondo Socrate. In realtà, per lui, essi devono essere valutati non sulla base di presunte verità tramandate da una qualsiasi tradizione, ma sulla base del ragionamento logico per cercare di capirsi su che senso abbiano riguardo al modo migliore, anzi ottimale di comportarsi reciprocamente nella vita in funzione della comune felicità. E ciò significa scoprire quale sia il bene che da essi debba derivare come comportamento virtuoso e in sostanza come virtù. Ma che di certo non è un bene assoluto, dato che la conoscenza assoluta egli ritiene sia solo quella del mondo divino e quindi nel mondo terreno può solo divenire oggetto di ricerca perseverante che mai termini nella convinzione d’aver raggiunto lo scopo. Questa è la drammatica convinzione da cui l’Oracolo di Delfi intendeva liberare l’uomo, “nella considerazione…” dice il filosofo, “che fino a quando abbiamo il corpo… non conseguiremo mai il possesso pieno di ciò che desideriamo, vale a dire della Verità”, della purezza dei valori nel senso d’una loro definizione ultima. Proprio come si evince dal “Lachete” in cui non si arriva ad alcuna conclusione definitiva. Dunque, non un bene assoluto, ma comunque un bene concreto su cui gli uomini possano e debbano mettersi d’accordo dialogando tra loro con civiltà. Questo non è relativismo etico ma consapevolezza dei propri limiti umani, cioè di non possedere la conoscenza assoluta, troppo spesso responsabile di politiche di dominio. Perciò non si deve mai essere sicuri del proprio sapere, facendone quasi un dogma di fede rispetto invece alla sua progressiva evoluzione verso il divino. Evoluzione che è il mandato dell’uomo e ciò può accadere poiché l’attività intellettuale nasconde in sé l’aspirazione al soprannaturale, essendo la nostra essenza simile a Dio, per cui i limiti umani sono superabili. “Al divino, all’immortale, all’intelligibile… l’anima è similissima…”, dice Socrate nel Fedone. Tale somiglianza è una verità nascosta nell’interiorità umana: è nella nostra stessa coscienza che l’ha dimenticata. Bisogna allora solo scoprirla, toglierle il velo. Come? Intridendo la coscienza di valori sempre più somiglianti alla purezza di quelli divini e allora l’uomo si aprirà al ricordo della sua vera identità, della sua vera essenza, della sua origine celeste. È un percorso lungo nel quale si deve essere duri con se stessi, con quello che si agita nella propria interiorità se ci si sa ascoltare veramente: appunto false credenze, passioni, desiderio morboso d’ogni potere, del successo, quello smodato dei beni, paure eccessive che oltrepassano la soglia del razionale, l’idolatria per ogni mito in cui viene fossilizzato il protagonismo altrui. Insomma occorre un incessante lavorio interiore che debba sfrondare le radici di tutti quegli istinti che impediscono alla coscienza d’essere giusta, rispettosa dei diritti degli altri con relativo riconoscimento della loro dignità di uomini.  Tutto ciò richiede un cammino che può durare anche anni perché, così come “natura non facit saltus”, così pure è per la vita spirituale, nel senso che non si passa come per magia dalla bestialità ad un mondo interiore privo ormai d’urgenze istintuali. Il processo richiede tempi necessari a far maturare metamorfosi di sé e per questo è irrinunciabile  che si sappia armonizzare la propria vita, viverla cioè in armonia tra parole e azioni secondo l’ideale della grande filosofia greca col suo connotato di purificazione morale.

Come si evince da tali premesse, la voce lontana di millenni insegna che definire un valore non è mai qualcosa di statico, ma dinamico, frutto di operazioni mentali ed etiche nel confrontarsi dialogico sotto la guida di qualcuno che abbia dato prova della sua virtù, “quale deve dare chi voglia darla nel modo giusto”, chi sia “veramente degno dei discorsi che fa” (Lachete) in perfetta armonia nel suo vissuto tra parole e fatti, diversamente da chi agisce nel modo contrario, e tanto più quanto meglio sembri parlare. Il tutto in vista della definizione universale dei valori, cercando di avvicinarli sempre più a quelli che appartengono al Sommo Bene.

E questo significa che i giudizi che regolano i rapporti umani sono un fatto vivo e come tali sono in cammino assieme all’uomo, alla sua crescita psico-fisica, alle urgenze dei suoi problemi esistenziali coi quali deve confrontarsi incessantemente con se stesso e il prossimo col quale condivide le stesse perplessità del vivere. Altrimenti i precetti, i diktat di qualsiasi potere diventano una gabbia da cui è impossibile uscire e che non accompagnano il cammino di consapevolezza nel chiedersi il modo attraverso cui pervenire al risanamento interiore: “conditio sine qua non” perché la Giustizia Divina richiami a Sé.

Socrate, per conto suo, è il primo ad ammettere di non avere la conoscenza definitiva dei valori, mostrando così un’umiltà intellettuale davvero ammirevole, vista la tendenza umana a fare spesso da Catone. Perciò il metodo della sua ricerca deve penetrare negli abissi profondi dell’essere umano, per arrivare a conoscerne l’intima natura, procedendo come uno scalpello per toglierne gli errori. E dunque il “conosci te stesso” socratico ha un significato diverso riguardo alle ricorrenti confessioni dei propri peccati secondo l’antico giudizio dettato dalla tradizione orfica che nulla aveva a che fare col risveglio della coscienza morale che avesse scrutato la qualità morale dei suoi pensieri. E infatti, secondo il pensiero filosofico greco, essendo la Divinità il Bene Sommo, l’anima può conoscerne la somiglianza solo assimilandosi a quei valori che ne costituiscono l’essenza: giustizia, libertà, rispetto, condivisione, poiché solo il simile conosce il simile.

Quel che conta allora è che ci sia autentica tensione verso un mondo più puro, riscoprendo il valore della moderazione che implica appunto rispetto del diritto dell’altro. Si è allora giusti, saggi, coraggiosi, rendendosi cari alla Divinità alla quale si diventa simili. Con l’intemperanza invece si precipita nell’ingiustizia, nell’arroganza da cui scaturiscono sopraffazione e violenza che portano a conflitti d’ogni sorta. Infatti, l’ingiustizia sorge a partire dall’ “aspirazione ad avere di più, ad accumulare senza limiti ricchezze, potere, privilegi, onori, fama” dice Platone (Leggi X). Le guerre, le rivoluzioni, le battaglie “scoppiano per l’acquisto delle ricchezze”, dice Socrate (Fedone). Perciò non è un dio responsabile delle cose negative che ci affliggono. “Un dio non è responsabile” (Platone – Repubblica). “…Ciascuno di noi…nel modo in cui desideri…in questo modo diventa ogni volta…”, “e mutando si muove secondo l’ordine e la legge del destino” (Leggi X). La divinità ha il solo compito di destinare l’anima alla sede etica che le si addice. E qui il Mistero va a “I ritardi della punizione divina” di Plutarco. Siamo noi i colpevoli in quanto “la responsabilità è di chi sceglie” (Platone – Repubblica). A questo proposito egli parla nel Gorgia del supremo giudizio cui le anime vengono sottoposte nell’Aldilà, tra l’altro non potendo più nascondere reciprocamente la loro vera natura morale, ora che sono spogliate del corpo che faceva da schermo nella vita terrena. “L’anima va nell’Ade recando con sé nient’altro che la sua educazione e il suo nutrimento spirituale” dice Socrate nel Fedone, “due cose che più di tutto… giovano o nuocciono… laggiù”. E proprio sotto questo aspetto c’è presso gli Egizi la credenza nella pesatura delle anime. Pesatura per la quale nel Gorgia si afferma, secondo la Religione Orfica e la filosofia pitagorica, che, mentre i buoni riceveranno nell’Aldilà un premio per le loro virtù, i responsabili di colpe sanabili sconteranno una pena in grado di purificarli attraverso la sofferenza in quanto dall’ingiustizia “non ci si può liberare in modo diverso”. E ancora, che i responsabili d’ingiustizie insanabili saranno condannati a subire i patimenti più grandi. Ma comunque ci sarà per tutti il ritorno finale al mondo divino, tanta è la potenza di attrazione sulle anime esercitata dal Bene Supremo. Credenza tramandata dai sacri Misteri tra cui emblematico quello del dio Dioniso che nasce, muore e risorge. Quasi ad evocare la promessa che davvero un giorno ciò si sarebbe verificato ad opera del Figlio Divino che alla sua resurrezione avrebbe reso partecipe l’uomo.

Rosa Russo Persichetti, scrittrice

 

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